Una famiglia da conoscere
Per fortuna ci sono anche tante cose belle nel mondo ed è bene che si vengano a sapere….
Questa è una di quelle che mi hanno particolarmente colpito…
Multietnica la famiglia, multietnico il vino
Paolo Polegato, 49 anni, è proprietario insieme al fratello Giorgio, 42, dell’azienda agricola ‘Tenuta Val De Brun’ di Refrontolo, e produce un vino dal nome innegabilmente poco ‘enologico’. Si chiama ‘No excuse’ ed è di forte impatto visivo: etichetta nera, la scritta ‘vino multietnico’, l’immagine di tutti i continenti, due mani che si stringono, una nera e una bianca, e il motto di Martin Luther King: ‘I have a dream’, ho un sogno.
Dietro quella bottiglia c’è un progetto che travalica l’oceano, nato da un incontro con il difensore interista Ivàn Ramiro Cordoba, colombiano, un bravo ragazzo, ricorda Polegato. «Io gli ho raccontato delle mie campagne contro il razzismo nel mondo del calcio, lui della sua terra e di un progetto ‘Esperanza’ a favore dei bambini della Colombia, un Paese per certi versi ancora così arretrato che intere popolazioni non hanno mai visto un medico».
La ‘Esperanza’ è una nave ospedale a bordo della quale un’équipe medica dell’ospedale San Raffaele di Milano risale i fiumi dall’Oceano Pacifico e raggiunge i villaggi più remoti, portando medicinali e cure in regioni in cui la mortalità infantile è elevatissima. Argomento cui Polegato e la sua famiglia ‘multietnica’ non è rimasto insensibile: «Due dei miei tre figli, Wilson e Filippo, sono colombiani – spiega – , mi è sembrato giusto contribuire anch’io e così è nato ‘No excuse’, niente scuse, lo slogan adottato dall’Onu per il Terzo mondo». Per ogni bottiglia venduta l’azienda vinicola rinuncia a un euro, che devolve alla fondazione di Cordoba e di sua moglie Maria Yepes, ‘Colombia te quiere ver’. «L’obiettivo minimo è venderne 25mila bottiglie l’anno, quindi devolvere 50mila euro in due anni».
Wilson e Filippo sono il primo progetto anti-razzista partorito in casa Polegato oltre un ventennio fa, che continua ora con la sponsorizzazione della squadra del Treviso.
22 anni fa Paolo e Laura si recarono in Ecuador per adottare un bambino ma il progetto fu rimandato perché la moglie si rese conto di aspettarne uno suo: è Carlotta, oggi 21enne e iscritta al terzo anno di Servizi sociali all’università di Venezia, obiettivo il volontariato in Africa e l’assistenza sociale. «Dopo due anni però l’idea di dare una famiglia a un bambino rimasto senza genitori si è ripresentata – continua Paolo – così siamo andati a Bogotà e abbiamo conosciuto Wilson. Aveva 10 mesi, siamo rimasti con lui altri due e poi è venuto con noi in Italia. Oggi ha 19 anni e studia a Milano… Lo abbiamo portato a visitare il suo Paese e a conoscere la donna cui era stato affidato dopo l’abbandono, ma non ha rimpianti, qui è pienamente realizzato e studia con passione ». Dopo 3 anni è stata la volta di Filippo, «molto scuro di pelle perché viene dalla zona agricola dei cocaleros, i coltivatori di coca.
Aveva solo 4 mesi quando è entrato in casa nostra. Oggi ha 16 anni, studia ragioneria in una scuola cattolica e gioca a calcio con il Treviso nel campionato nazionale degli allievi. Della Colombia nessuna nostalgia: è felice, ha la morosetta… ».
Carlotta è da poco tornata dal Togo, dove ha fatto volontariato prima in un consultorio medico a Lomé, poi in un’azienda agricola di commercio equo e solidale per l’essiccazione della frutta, infine all’ospedale delle Suore della Provvidenza di Udine, nella missione di Kouvè, tra i malati di Aids e i bambini denutriti. «Li ha visti morire, un’esperienza che ha indirizzato le sue scelte per il futuro».
‘I have a dream’ è «l’unica campagna di sensibilizzazione contro il razzismo negli stadi, promossa in Italia da un privato».
L’immagine che la rappresenta – la mano bianca e la mano nera strette tra loro – appare in tutti gli eventi e i momenti pubblici, sui gadget e sulle magliette, "soprattutto quando sono invitati atleti di società con una tifoseria inquinata da frange razziste".
C’è aria di famiglia in quelle due mani. Sono la sua e quella di suo figlio.
Il nome «No Excuse», niente scuse, riprende il motto dell’Onu per il Terzo mondo. «È un vino multietnico, come la mia famiglia»